Bureau69 Architects | Max Strano architetto

Come il Covid-19 potrebbe cambiare le nostre città
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È in corso un processo di dicotomizzazione del “concetto di sogno” delle città del futuro (città post-Covid). Abbiamo fatto crescere le città in modo vertiginoso per favorire la concentrazione del lavoro, avvicinando il lavoratore al luogo di produzione. Le città principali hanno ancora un’organizzazione concentrica medievale del territorio in cui il municipio e la cattedrale sono stati sostituiti dal centro commerciale, i ricchi vivono nel primo cerchio, la classe media (borghesia) nel secondo, ecc. Il tutto finalizzato al “confinamento” del mercato del lavoro, dove la domanda esulta mentre l’offerta aumenta e il costo del lavoratore (in termini di salario e tempo libero) tende a diminuire drasticamente.

Le città falansteriane, come Londra, Parigi e le grandi capitali in generale, si sono sviluppate economicamente e urbanisticamente secondo questo principio in cui l’edilizia ha stabilito il suo modulo di applicazione. L’architettura ha pensato e sviluppato l’unità abitativa minima e gli standard per le stanze abitabili (al di sotto dei quali è impossibile scendere ma che rappresentano il massimo ottenibile per l’acquirente), e ha regolato lo “spazio di vita” fisico. Proprio perché la tendenza era quella di ottimizzare lo spazio per la macchina di produzione e non per l’essere umano con le sue occupazioni, attività e svaghi. L’uomo/donna è un elemento di produzione e tende a trascorrere un terzo della sua vita sul posto di lavoro (fino all’introduzione degli straordinari e allora l’uomo trascorreva metà della sua vita sul posto di lavoro). Le relazioni sociali si sono modificate, accelerate e hanno seguito gli stili consumistici come qualsiasi prodotto in vendita, spesso da usare e buttare.

Improvvisamente, però, questa tendenza subisce una minaccia emotiva: un virus che potrebbe interferire con il concetto darwiniano di uomo secondo natura e con quello di uomo “antropico”, reso all’estremo come capitale produttivo. Improvvisamente si pone il problema di come vivere a distanza. Una distanza che ora è misurabile, la chiamano distanza “sociale”, proprio per sottolineare che è moralmente sociale stare a una distanza se rientra nei canoni metrici stabiliti e misurabili. Una distanza che può essere colmata e superata dalla tecnologia, come sostituto della sfera emotiva del contatto sociale.

La distanza mentale (psicologica?) a cui siamo abituati a vivere non è più considerata distanza. Come faremo a vivere in una bolla di due metri di raggio? Come interagiremo? Come riorganizzeremo lo spazio funzionale? Sarà possibile ed economicamente sostenibile farlo?

Per un momento mettiamo da parte la sostenibilità canonica del termine. Prima della distanza sociale, la sostenibilità aveva un altro significato, meno profondo, più “lontano” (effetto serra, buco dell’ozono, scioglimento dei ghiacciai, ecc). Qualcosa che riguarda il mondo là fuori e non il prossimo mondo sociale. Il futuro si immagina ormai a distanza – considerato per qualche motivo “smart” – e senza connotazioni negative, relativizzato proprio dalla tecnologia. Si parla di smart working. Un modo efficace per recuperare spazio e pensare alla sostenibilità di un ambiente che si rigenererebbe da solo riducendo gli spostamenti e l’inquinamento perché lavoreremo da casa.

Che senso ha quindi concentrare gli abitanti nelle megalopoli? Seguendo il nuovo sogno in quel fatidico 2050, non ci saranno più i due terzi della popolazione mondiale concentrati nelle città? E che dire dell’espansione fisica in corso? I piani strategici per intensificare la costruzione e l’offerta di nuovi alloggi? La marcia al ritmo di centinaia di migliaia di nuove case all’anno sarà arrestata?

Dobbiamo capire meglio le cose. Chi lavora da casa desidera case più grandi con determinati standard di “vivibilità”, magari con spazi verdi circostanti e con spazio abitativo sufficiente per tutta la famiglia, compreso quello per il partner che lavorerà da casa. Chi può permettersi questi spazi nelle grandi città? La città ha abbastanza spazio? Il lavoratore medio dispone di un capitale adeguato? Il mercato e le politiche hanno preso in considerazione la possibilità di rendere i lavoratori veramente autonomi e indipendenti, permettendo loro di scegliere di adattarsi al cambiamento desiderato? Dal mio punto di vista, lo smart working segnerà lo svuotamento delle città. E, dal mio punto di vista, questa visione non è certamente di grande interesse economico, quindi poco praticabile in un mercato capitalistico globale.

Personalmente credo che in futuro vedremo tanta normalità passata e accettata come un costo del concetto capitalistico di progresso. La tendenza rimarrà invariata e si tornerà all’approccio (non) sostenibile alla vita di sempre. Vedo già persone che entrano in metropolitana, sento i clacson delle auto suonare, alla ricerca di un parcheggio vicino al posto di lavoro che forse assumerà nuove terminologie ma con gli stessi significati. Se tutto questo non dovesse accadere e un nuovo rapporto spazio-temporale regolasse la nostra vita, potremmo riconsiderare nel medio-lungo periodo la rendita immobiliare e il conseguente valore dei terreni e degli edifici del centro città?

Max Strano / Bureau69 Architects

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